Cultura e Spettacoli

La città e la campagna nell’ultimo film di Michele Placido

L’undicesimo film del foggiano Michele Placido non esibisce nudi, non contiene parolacce e non mostra scene di violenza. Ma v’è pure un quarto merito: di essere tratto da una misconosciuta ‘commedia drammatica’ del siciliano Pirandello, che s’intitola “L’innesto”. Vi s’immagina che una signora, intenta a Roma a dipingere, venga avvicinata e stuprata. La donna, che da sette anni aspetta una gravidanza che non arriva, non sporge denuncia; anzi, dopo qualche settimana, si rende conto di essere incinta. Non vuole abortire, nonostante le richieste del marito, il quale, alla fine, riuscirà a capire il punto di vista della moglie. Come è stato detto, si tratta di dare un nuovo senso all’accaduto, quasi per rivestire di bene quell’atto malvagio da cui pure nascerà qualcosa di bello: una nuova vita. Ciò che ha subito la sua consorte è stato come un innesto che ferisce la pianta ma le fa dare nuovi e migliori frutti. Il regista ha realizzato un bell”innesto’ tra antico e moderno, tra campagna e città (anche se si tratta non di Roma ma di Bisceglie). Si rifà a Pirandello di un secolo fa, ma in realtà affronta problemi come la sterilità e la fecondazione eterologa (o assistita). A questa tecnologia della procreazione si abbina un discorso rurale. L’innesto, infatti, viene discusso brevemente nel film in ambiente agreste (i personaggi si dividono tra una casa in campagna e il tempo che trascorrono nella cittadina marittima). Si discute brevemente in questa scena dell’innesto del prugno (e ci vengono in mente,  qui, pratiche come la potatura ma anche le moderne tecniche dell’innesto nell’ovulo del seme maschile). Le due componenti convergono: quella umana e quella vegetale, quella agricola e quella cittadina (ci s’immagina nello studio di un ginecologo). Ormai queste tematiche riguardano tutte le aree geografiche e tutti i ceti. Le conoscenze si diffondono perché siamo tutti omologati: si pensi agli extracomunitari che convivono con la borghesia biscegliese oppure alla cittadina stessa, inquadrata dall’alto, che mostra  il suo traffico convulso segnalato dalla velocizzazione dei veicoli (macchine e camion diventano filamenti luminosi in una città affaccendata, come capita di vedere nei film ambientati nelle metropoli americane). La donna non denuncia; avrà quindi il suo bambino il cui responsabile viene identificato, con una foto segnaletica, dai carabinieri (e se un giorno il pargolo volesse conoscere il suo vero padre? E se quest’ultimo volesse conoscere suo figlio?). Si tratta pur sempre di  Bisceglie dove tutti, ancora, sono informati dei fatti del prossimo. Ma c’è un altro dettaglio della storia che quasi vale tutto il film. In Pirandello appare un personaggio ‘super partes’ (autorevole ed esterno a ciò che viene trattato) che in Placido non appare, sostituito da un altro. Il regista è anche interprete nel ruolo del maresciallo dei carabinieri che segue e consiglia la donna con garbo e delicatezza. Porta con sé in macchina durante le indagini il figlioletto un po’ obeso, che dorme in caserma: della casa, di una madre, nemmeno l’ombra. Il genitore lo rimbrotta perché il ragazzino, la sera tardi, ancora s’intrattiene con i colleghi del padre (ma ciò che più sorprende è il divario d’età tra questi e il figlio). Risulta chiaro, con questo mistero aggiuntivo, che Placido abbia voluto narrare più di quanto ci propini in modo esplicito. A tenere tutte le fila del discorso è la fulgida Ambra Angiolini, perfetta nel suo dilemma. E’ lei stessa a sintetizzare il suo ruolo. “Laura è interessante perché a un certo punto può essere qualsiasi cosa, è buona, è cattiva, è vittima, è carnefice, è lei che forse ha fatto accadere tutto o forse è semplicemente una donna travolta dagli eventi, e ai miei occhi questi chiaroscuri erano bellissimi”.

Gaetano D’Elia

 


Pubblicato il 8 Aprile 2015

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