Cultura e Spettacoli

Storia e significato della Pasqua ebraica e cristiana nelle Puglie

Andrà il 1° maggio a concludersi,  quest’anno,  con  la celebrazione della Pasqua ortodossa, il ciclo delle ricorrenze pasquali che ha avuto inizio – anche nella nostra regione pugliese  – con la commemorazione, a S. Nicandro Garganico e Trani, della Pasqua ebraica, cui ha fatto seguito, domenica 27 marzo, con minore solennità del solito per i luttuosi eventi che hanno afflitto l’Europa, la celebrazione di quella cattolica. L’origine  della  Pasqua  (in  ebraico  Pesah),  la  più  importante  festa  ebraica  e  il  significato  stesso  della  parola  restavano  oscuri nelle  fiorenti  comunità  ebraiche  pugliesi  dell’alto   Medioevo. Secondo il Libro dell’Esodo (12- 14 &  43-49), la Pasqua festeggiava il ricordo dell’esodo degli Ebrei dall’Egitto. Si trattava, in realtà, di una nuova interpretazione  di  riti  ben  più  antichi  (cfr. Es. 3: 18, 5:3, 7: 36), indizi di  una  eziologia  (Es. 12: 26-27), cioè di una festa primaverile di nomadi,  che  comportava  il sacrificio  delle  primizie  del  gregge  (aspersione della porta con il sangue, banchetto sacrificale con erbe e con pane non fermentato, non rottura delle ossa dell’animale sacrificato). Forse tutto ciò aveva il significato di assicurare la protezione della divinità per il prossimo futuro e di scongiurare ogni malanno prima del cambiamento del luogo del pascolo (ossia prima della partenza). Dopo la conquista della terra promessa, tutto ciò fu unito con la festa agraria di primavera dei pani azzimi  (cioè non fermentati). Il nuovo sacrificio divenne così chiaro: ringraziamento  al Dio del patto per la liberazione  dalla schiavitù egiziana; il sacrificio dei primogeniti degli animali risparmiava i bambini del popolo ebraico: la punizione di Dio  passava oltre, laddove le porte erano state spruzzate col sangue  (p s h = oltrepassare, passare oltre,  risparmiare, saltare); i pani azzimi indicavano la fretta della partenza:; l’inizio del nuovo anno, che per i nomadi  avveniva normalmente a primavera,  diventa un nuovo inizio (cfr. Es. 12: 2). La Pasqua era inizialmente una festa di famiglia. Con la riforma del culto operata da Giosia  (638-608 a.C.) essa divenne una festa da celebrare nel Tempio e con un pellegrinaggio. Nel tempo post-esilico gli animali dovevano uccidersi nel Tempio e il banchetto pasquale doveva aver luogo in piccoli gruppi nelle case di Gerusalemme. Questa era la forma che i Vangeli supponevano per il tempo di Gesù (cfr. Mc. 14: 12-24 e passi paralleli). Secondo questi racconti, Gesù utilizzò l’ultima festa di Pasqua prima della sua passione  per istituire la celebrazione della memoria della sua morte (Cena). Gesù era l’agnello pasquale (1  Cor. 5: 7 ; cfr. 1 Pt. 1: 19). Specialmente Giovanni presenta Gesù come nuovo agnello pasquale (p. es. 19: 36 ). Al posto della Pasqua ebraica subentrò nel Cristianesimo la celebrazione del ricordo della risurrezione del Cristo. Pasqua  era, con la Pentecoste e la Festa delle Capanne, una delle tre grandi solennità liturgiche con le quali il popolo ebraico ricordava i benefici da Dio ricevuti nell’ordine della natura e della grazia, nel corso della sua  agitatissima storia. Dal suo nome ebraico Pesah, in aramaico Paschàh, deriva il nostro, Pasqua.  Poiché la radice verbale  p s h  (=  pàsah) significa,  come già detto, oltrepassare, saltare, e la festa fu infatti dedicata al ricordo dell’essere i primogeniti degli Ebrei scampati durante la decima piaga d’Egitto, quando l’Angelo sterminatore oltrepassava, cioè risparmiava le case degli Ebrei segnate dal sangue dell’Agnello (Es. 12: 13, 23 e 27). La festa durava dal 14 fino al 21 del mese di nisan (marzo-aprile). Il primo e l’ultimo giorno erano di festa completa con l’obbligo del riposo (v.  Es. 12 e Lev. 23: 1-14). Il giorno 14, ogni  capo-famiglia portava nel Tempio un agnello o un capretto   perché il sacerdote lo sgozzasse e ne versasse il sangue sull’altare, mentre il grasso veniva bruciato; ritornato a casa, arrostiva l’animale, infilzato in due legni a forma di croce per non romperne le ossa. Seguiva, dopo il tramonto, la grande cena pasquale, con pane non fermentato e con erbe amare. I commensali dovevano trovarsi tutti nella richiesta condizione di purità legale. Ogni rimasuglio di carne veniva poi bruciato. Durante la settimana di Pasqua si mangiava soltanto pane azzimo, donde il nome di festa degli azzimi  usato nei Vangeli,  e si offrivano nel Tempio  particolari sacrifici. Nelle epoche successive il rito venne di molto arricchito. L’agnello pasquale era un vero e proprio sacrificio e raffigurava l’immolazione del Cristo (v. 1 Cor. 5: 7, dove Pasqua indica per  metonimia agnello: 1 Pt. 1: 19; cfr. Gv. 19: 33-36) . Il convito pasquale nel quale Israele rinnovava il patto con Dio fu figura del convito eucaristico (1 Cor. 10: 17). Gesù Cristo istituì l’Eucaristia – affermava il nostro comprovinciale  Card. Pietro Parente nel suo Dizionario di Teologia Dogmatica  (1943-45) –  appunto alla fine dell’ultima cena pasquale della sua vita. E’ il Gesù del cosiddetto Testimonium Flavianum costituito  dai §§ 63-64 del l. XVIII  delle Antichità Giudaiche  di Giuseppe Flavio, il quale recita:  “  “ “   Allo  stesso tempo circa, visse Gesù, uomo saggio, se pure uno lo può chiamare   u o m o   , poiché egli compì opere sorprendenti, e fu maestro di persone che accoglievano  con piacere la verità. Egli conquistò molti Giudei e molti Greci. Egli era il Cristo. Quando  Pilato  udì che dai principali nostri uomini era accusato, lo condannò alla croce. Coloro che fin da principio lo avevano amato non cessarono di aderire a lui. Nel terzo giorno, apparve loro nuovamente vivo: perché i profeti di Dio avevano profetato queste e innumeri altre cose meravigliose su di  lui. E  fino ad oggi non è venuta meno la tribù di coloro che da Lui sono. Fino al sec. XVI l’autenticità di questo  brano rimase indiscussa e da allora la questione non fu sciolta;  lentamente la questione si può dire chiarificata nel senso che gli studiosi interessati a questo problema si possono approssimamene dividere in tre gruppi:

• il primo nega che Giuseppe abbia scritto qualcosa su Gesù e che,  nel caso ne avesse scritto. Il testo a noi giunto sarebbe stato reso irriconoscibile da una mano posteriore, onde, secondo Lewy, Niese, Norden,  Schuerer e Zeitling, esso è spurio;

• altri (Bretschneider, Burkitt, Schutt e von Harnack)  difendono l’integrità del testo così come ci è giunto;

• altri (Brandon,  Dubacle, Feldman,  Neville Birdsall. Pelletier,  Pines  e Scheidweiler), infine,  ritendono che Giuseppe non poteva mancare di scrivere sui Cristiani e che il testo a noi giunto è stato però variamente elaborato, ma è immune da sostanziali mutazioni (questa è la posizione degli studi contemporanei). E’ retto concludere che  l’impressione che si riceve da uno studio approfondito  del racconto di Giuseppe Flavio è che egli non era nel complesso indifferente nei riguardi  di Gesù.  Le parole “un altro orribile evento”, che introducono il paragrafo immediatamente successivo al brano su Gesù, indicano che Giuseppe considera la condanna a morte di Gesù un evento che  “gettò lo scompiglio tra i Giudei”. Del resto egli di “Gesù, che era soprannominato Cristo ” scrisse ancora, con evidente rispetto, per non dir  ‘ simpatia ’ , nel § 200 del l. XX e sull’autenticità di questo testo non sono sorti dubbi. E’ a quel Cristo, alla sua Passione e Risurrezione, alla Redenzione da lui operata che la Pasqua commemorata dalle comunità cristiane delle nostre Puglie si richiama, dandole  significato, sin dal tempo in cui Giuseppe Flavio viveva.

Emilio Benvenuto


Pubblicato il 5 Aprile 2016

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