Cultura e Spettacoli

A Sant’Egidio a mani nude contro il fango

Fino all’Ottocento esisteva sul Gargano, nel territorio di San Giovanni Rotondo, un lago chiamato Sant’Egidio che riempiva la cosiddetta Conca del Casale. Esteso  centoventi ettari, lo specchio d’acqua era avvolto da un rigoglioso manto boschivo. Per le grandi risorse di pesca e caccia che offriva, il territorio fu abitato già in epoca  paleolitica. A primi insediamenti ne fecero seguito altri in età normanna, sveva, angioina, aragonese e borbonica. Del lago di Sant’Egidio parla per primo un naturalista francescano, Padre Manicone nel suo ‘La Fisica Appula’, un testo enciclopedico del 1808. Tale lago era di “tre miglia di circonferenza, lungo un miglio e profondo sette palmi e riceveva acqua dalle sorgenti della Valle di S. Nicola e da altre scaturigini presenti in altre valli”.  In un determinato punto “le acque giravano in vortice e da una sotterranea apertura erano ingoiate, per cui questo si disseccava agevolmente e quindi verso il principio del secolo scorso si chiuse con dei muri l’antro sotterraneo”. Il lago Sant’Egidio non esiste più. Nel 1910, per contrastare la malaria, venne avviato un piano di graduale prosciugamento e assegnazione delle aree bonificate ai braccianti senza terra. Al posto del lago si stende oggi una vasta prateria (ma si parla con crescente insistenza di ripristinare almeno in parte l’originale specchio d’acqua a fini naturalistici). Le ultime tracce d’acqua a Sant’Egidio sono state documentate da Elio Piccon, un cineasta ligure che, scoperto il Gargano verso la metà degli anni Sessanta, vi tornò ripetutamente a raccogliere le residue testimonianze di un ambiente umano ed ambientale avviato verso un cambiamento radicale. ‘Il Pantano’ è un documentario di undici minuti che dà un’idea di cosa rappresentava il Lago di Sant’Egidio per le popolazioni del luogo anche quando ormai ridotto a due spanne di acqua putrida: una grande riserva di pesce, anguille sopratutto. Precedentemente di proprietà privata, sicché vi si pescava solo di frodo, nel dopoguerra la palude venne lottizzata per sorteggio. Ogni anno i pescatori sorteggiati, potevano ‘tagliare’ la propria ‘carrara’, cioè liberare dal fango (un lavoro fatto a mano) un corridoio d’acqua sufficiente a farvi passare una barca e stendere la rete. Le carrare erano ‘a scadenza’ : duravano una stagione. Una volta ricresciuta l’erba palustre, bisognava liberarle di nuovo. Una fatica stremante. Ne dà un’idea l’immagine posta a corredo di queste righe e che corrisponde a un fotogramma dell’opera di Piccon. Una fatica per lo più ripagata da ricavi miseri, specie se un sorteggio non benevolo assegnava una carrara ‘cattiva’, cioè meno redditizia delle altre per la preponderanza della melma sull’acqua.

Italo Interesse

 


Pubblicato il 15 Gennaio 2020

Articoli Correlati

Pulsante per tornare all'inizio